Quando i poeti diventano maghi. I casi di Virgilio e Ch’oe Ch’iwŏn.
(da Maurizio Riotto, Korean studies, Volume 38. Edito dall’Università delle Hawaii a Manoa, 2014)
In un interessante articolo Maurizio Riotto ripercorre le vicende di Virgilio e Ch’oe Ch’iwŏn, poeta coreano del nono/decimo secolo, prima funzionario in Cina alla corte dell’imperatore Xizong; poi, una volta tornato in Corea e dopo che le sue proposte di riforma sociale erano qui state respinte, ritiratosi in volontario esilio con i familiari sul monte Kaya. Due poeti, rappresentativi della cultura antica occidentale e orientale, entrambi perfetti conoscitori del linguaggio e venerati per la loro profonda conoscenza dai posteri.
Tra loro corrono diverse analogie. Entrambi infatti secondo la leggenda sono stati dipinti come dotati di poteri soprannaturali, capaci di compiere magie e accordi con demoni e spiriti. Un letterato in estremo oriente ha una relazione familiare con l’arte divinatoria, considerata una branca delle scienze umane. E singolarmente anche Virgilio, mantovano, reca nella sua origine etrusca l’interesse per l’arte divinatoria. Ancor oggi in Italia viene usata la parola “vate”, derivata dal latino vates. Questa aveva il significato di indovino, profeta, e sua volta deriva dalla radice indoeuropea gvates, collegata a “cantare”, “annunciare”.
Dalla remota antichità la capacità unica di utilizzare un linguaggio complesso ed estremamente variegato è stata percepita chiaramente. Il linguaggio è diventato strumento di potere per prendere possesso della realtà. Una successione precisa di suoni ha formato parole, comprensibili all’interno del gruppo, eppure grida insensate per altri. Le parole hanno un potere evocativo sulla mente. In cinese ming 名 che significa “nome”, è formato in origine dai caratteri che significano “sera” e “bocca”, e l’interpretazione porta all’etimologia di “attingere dalle tenebre” quindi alla forza evocativa posseduta dal nome delle cose.
Molte parole nelle società antiche sono segrete e accessibili solo ai sacerdoti, come un dono del Cielo. Nelle società antiche i poeti rappresentavano la memoria storica di un gruppo etnico, erano capaci di evocare immagini di dei, guerrieri, spiriti, difendendo la tribù. Considerati sacri, vivevano appartati dalla gente, rispettati e temuti. Un poeta attualmente non è un “creatore” ma un “cercatore” di ciò che già esiste ma non può essere visto a causa delle sovrastrutture culturali. Questo concetto è ancora forte in Estremo Oriente, dove la ricerca dell’esistente è prioritaria rispetto alla “poiesis”. Se il poeta è capace di trovare la vera essenza delle cose, sarà capace anche di evocare ogni cosa tramite il mezzo dei suoi versi. Il ruolo è quello di anello di congiunzione tra Cielo e Terra a favore della comunità. Alla nascita dello stato centrale la funzione sacra dei poeti decadde e solo occasionalmente i letterati sono stati al servizio della propaganda nazionalista, ma in caso di crisi politica o sociale ancora ad essi veniva affidato il compito di difendere le tradizioni culturali con i loro poteri magici.
In conclusione, analizzando la vita di Virgilio e Ch’oe, Riotto conclude che i poeti e i grandi letterati occasionalmente possono recuperare il loro ruolo precedente di santi/veggenti/sciamani per proteggere la cultura e l’identità originaria, quando una società complessa non offre soluzioni alle crisi e ai problemi.
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